S’apre
un sipario di luce e di terrore: un nuovo orizzonte mi appare innanzi agli
occhi; vedo, come se fosse la prima volta, alti mostri che mangiano case,
funesti grattacieli che si innalzano con prepotenza, immortali opere dell’uomo
come le Piramidi d’Egitto; tutto questo mi spaventa, continuo a girarmi e a
studiare l’ambiente con freddezza.
Corro;
cerco di fuggire da questo luogo di cui non conosco il nome; attraverso la
strada urlando come un forsennato; incespico sul gradino di un marciapiede
cadendo con la faccia nel fango. Dolore e rabbia mi fanno vomitare e piango,
perché nessuno cammina sui marciapiedi, le automobili non passano per la
strada, non ci sono bambini che urlano, nonne che zoppicano, aerei nel cielo,
luci nelle case, rumori nelle vie, mezzi pubblici; la città è vuota; il mondo è
morto.
Con
il viso inzuppato di fango misto a lacrime, mi muovo cercando qualcosa con cui
pulirmi; mi guardo i vestiti: il sangue bagna la mia camicia, ma non provo
alcun dolore. Dove sono? Come sono capitato in questa città deserta? Dove vado
ora?
Comincio
a camminare pensieroso e dubitante: ho fame. Devo trovare del cibo. Svolto
l’angolo cercando di intravedere qualcosa; la strada è completamente deserta; i
negozi sembrano non esistere, vedo solo porte, finestre, corridoi, strade e
marciapiedi; sono tutti morti.
Ma
chi è morto? Chi conosco io che ora non c’è più? Questo è triste: non ricordo
di aver conosciuto mai nessuno. Eppure io sono io, da dove vengo fuori? Chi mi
ha creato? Chi mi ha messo qui?
Improvvisamente
odo un sibilo, dapprima leggero, poi forte; cresce sempre di più; è irritante,
è insopportabile, non lo reggo; aiuto!
Riemergo
da una profonda incoscienza; non credo di aver mai provato un simile dolore,
del resto non potrei mai averlo provato prima d’ora, dato che per quanto io
ricordo, sono nato dieci minuti fa tra i grattacieli.
D’un
tratto mi accorgo che quei mostri disumani non ci sono più, i mangiacase sono
spariti; è venuta la notte, no, non ho mai visto niente di simile: non è notte,
non è giorno, non c’è il tempo, non c’è la città, non c’è nulla, ci sono solo
io e vivo soltanto perché vive il mio pensiero, dato che non vedo più il mio
corpo, dato che non esiste altro che non sia questa mia voce disumana e tetra.
Che io sia finito in qualche voragine spaziotemporale o qualcosa di simile? Non
saprei, non vedo nulla. Che io sia Dio? Probabile, ma in questo caso dove sono
finiti i miei poteri? Perché non esco da questo incredibile pasticcio?
Vorrei
sapere chi mi ha fatto finire qui; se io non sono Dio, potrebbe essere stato
lui; che sia una specie di Inferno dove io devo scontare le mie pene? Oppure
forse è il Paradiso in cui esiste solo la mia pura razionalità: l’anima.
Sento
che le mie forze vengono meno, riesco a fatica a pensare; le mie parole si
affievoliscono, sento che tra non molto non ci sarò più. Addio. Chi saluto? Non
conosco nessuno. Conosco soltanto questa mia dolorosa esistenza…
(2)
“Il Risveglio”
“Che
ore sono?”, chiese Jean Pierre al padre.
“Le
quattro e mezza. Alzati, è ora di andare.”
Il
giovane, esitante, prese la brocca dell’acqua e si bagnò velocemente il viso
sporco di fuliggine.
“Sai
che strano sogno ho fatto, padre?”
“Lascia
perdere con queste sciocchezze e fai presto o arriverai in ritardo”, lo
rimproverò.
“Ero…
prigioniero nel nulla.”
“Sbrigati
o farai tardi!”
Jean
Pierre consumò in due attimi le due fette di pane imbevuto d’olio che il padre
gli aveva preparato e, preso il suo fagotto, uscì dalla tenda. Fuori faceva
molto freddo, ma ciò non impensieriva il giovane che lo avrebbe dovuto
sopportare solo per pochi minuti. I suoi passi lenti sulla neve lasciavano
impronte che sarebbero scomparse a momenti. I suoi pensieri, ora, erano rivolti
a lei, unico scopo della sua dolorosa vita.
Il
suo nome era Lindsay ed era inglese. I suoi occhi splendevano come gemme
brillanti alla luce del sole; i suoi capelli castani odoravano di muschio; il
suo volto sempre sorridente leniva anche le sofferenze più atroci, la sua voce
suadente e sensuale faceva di lei un angelo in terra, un sogno divenuto realtà.
Senza
neanche avvedersene imbucò la galleria, dal fondo della quale risuonò:
“Buon
giorno, Jean Pierre! Perché non ti fermi ancora un attimo da me? Ti offrirò una
tazza di tè con biscotti e cioccolatini”, e poi aggiunse con aria minacciosa,
“e una buona strigliata per insegnarti a rispettare gli orari una buona volta!”
Jean
Pierre rimase immobile senza rispondere, poi prese gli arnesi per il lavoro e
si avviò verso la galleria numero quattordici: la buona, vecchia, cara galleria
quattordici che tante soddisfazioni aveva dato agli uomini della miniera per la
sua abbondanza di carbone.
Mentre
scavava la sua mente vagava, vagava lontano, verso gli spazi più sconfinati,
verso i pianeti del sistema solare e intanto sognava una miniera che gli
permettesse di esplorare il centro della terra o una nave tanto grande da poter
contenere una piscina; e lui stesso e Lindsay che godevano i piaceri della
vita. Invece lavorava, lavorava e aveva dolore alle mani e ai piedi, e sudava,
mentre quel rumore assordante gli invadeva le orecchie, ma col sorriso che la
figura di Lindsay gli suscitava.
Appeso ad
una trave, proprio sopra una voragine, un peso enorme di diversi quintali era
tenuto in sospensione da una corda vecchia e malsicura. Attaccati al grave,
altri cavi giacevano abbandonati sul fondo nero come inchiostro; così, senza
che nessuno potesse accorgersene, un cavo si era attorcigliato all’attrezzo da
lavoro di Jean Pierre. La corda consumata e corrosa dalla fuliggine era sul
punto di cedere.
Ad un
tratto un boato percorse la miniera in tutta la sua lunghezza ed un urlo
disumano si elevò dalle profondità della terra: Jean Pierre era stato
scaraventato nella voragine dal grave e di lui non si sapeva più nulla.
“Ohilà, mi
senti? Jean Pierre!”, ripetevano continuamente delle voci, finché gli altri
minatori non si decisero a scendere nel buco.
Trovarono
il giovanotto a qualche decina di metri di profondità, ferito in più parti e
con una gamba spezzata e malridotta; avendo fortunatamente abbandonato
l’attrezzo, si era schiantato su di una piattaforma che sporgeva dalle pareti
del precipizio. Immediatamente fu portato alla luce del sole con una barella e successivamente
da un dottore.
Nella
capanna, tra la neve, suo padre si prendeva cura di lui. Dopo la morte della
madre, questo era il più grave guaio che gli fosse capitato; ora sarebbe
rimasto immobile per mesi e il padre, ormai vecchio, non era più in grado di
mantenere entrambi. Le sue rassicuranti parole lo confortarono in quelle ore
piene di tristezza e di malinconia; ma un giorno capì che non tutto procedeva
per il meglio: c’era qualcosa di strano nel comportamento del vecchio. Sembrava
quasi piangere in silenzio, senza versare lacrime. Infine Jean Pierre si decise
ad interrogare il padre.
“Se c’è
qualcosa che mi nascondi, ti prego, non celarmela. So perfettamente che la mia
gamba potrebbe andare in cancrena, ma il dottore dice che ormai questa possibilità
è fuori questione….”
“Non è
questo”, rispose il padre, “sono convinto che riuscirai a guarire, ma… c’è
qualcosa che ti devo dire: è successa una disgrazia.”
Gli occhi
del giovane si accigliarono. Il padre continuò:
“So che tu
l’amavi molto…”
“Lindsay!”,
urlò.
“Jean
Pierre, ci sono molte altre ragazze che potrai conoscere, amare, sposare…”
“Cosa le è
successo?”, gemette preso dalla disperazione.
“E’…
morta”, disse il padre, “due giorni fa, travolta dalla neve.”
“Non è
possibile, non è possibile, non è…”
Jean
Pierre era ormai in preda al delirio. Nei giorni seguenti la gamba non fece che
peggiorare, finché un pomeriggio, mentre il padre era fuori, uscì dalla tenda
zoppicando e sanguinando, ma fermamente sicuro di sé.
Con molta
fatica raggiunse le rive del lago e si fermò sulla sponda a pensare. In
silenzio prese una barca ormeggiata poco lontano e, remando verso il largo, si
allontanò mormorando fra sé:
“Lindsay,
aspettami.”
La barca
fu ritrovata due giorni dopo, ma del suo corpo si persero le tracce, della sua
esistenza il ricordo.
(3)
“La Rappresentazione”
Uno
scroscio di applausi invase la sala del teatro. La gente non si stancava di
sorridere e di gridare.
“Bellissimo!”
Due
innocenti vecchiette si entusiasmavano e ridevano di gusto, mormorando qualcosa
e aggiustandosi il colletto. Altre signore cercavano il marito tra la folla con
sguardi indiscreti. Il signor Saronni attraversò la sala, andando incontro
all’eccezionale artista che così meravigliosamente aveva colorato quella serata:
Giorgio Einaudi.
La
gente gli stava intorno, soffocandolo di domande, quando finalmente le
personalità più in vista di tutto Camerano, si chiusero nella Sala delle
Riunioni per discutere con l’ormai celebre Einaudi.
“Il
vostro libro sarà sicuramente un successo!”
“Mai
visto un dramma più ricco di emozioni e di sentimento.
Mai
visti dei personaggi più sinceri ed umani!”
“Si
tratta di un’opera autobiografica?”
“A
chi vi siete ispirato per la creazione del personaggio di Lindsay?”
“Chi
è il vero protagonista?”
“Calma,
signori”, fece il signor Saronni, “il signor Einaudi risponderà a tutte le
vostre domande, ma prima dovrà promettere di onorarci della sua presenza alla
conferenza di domani!”
Grida
e applausi si fusero insieme, mentre l’artista accennava di sì con il capo.
Ormai
aveva conquistato tutto ciò che aveva a lungo sognato: la fama e la gloria.
Tutti i suoi sogni erano giunti finalmente ad un degno epilogo, tutti i suoi
sforzi erano stati coronati dal successo, eppure quell’uomo non si sentiva
felice: non sapeva bene, ancora, quale fosse il suo scopo, non provava più
soddisfazione per alcunché.
Era
arrivato al punto di odiare i personaggi del suo libro; li invidiava perché
essi erano riusciti a compiere qualcosa di grande, qualcosa al di fuori della
normalità.
Fu
in quell’occasione che cominciarono a sorgere in lui le prime strane idee:
voleva diventare un personaggio del suo libro, ma senza modificare la storia,
no, quella andava bene com’era. Decise di cambiare se stesso.
Si
era ormai convinto che lo scopo della sua vita fosse assomigliare in tutto e
per tutto al Jean Pierre del romanzo. Imparò le sue frasi a memoria, acquistò
una capanna sulle rive di un lago ed ogni giorno, puntualmente, si recava
presso una cava lì vicino, come se si trattasse della miniera.
Aveva
persino dato il nome ad uno stretto corridoio tra le rocce: era la galleria
numero quattordici e ne andava fiero come se fosse opera sua; ed ogni giorno
ritornava alla capanna sporco e inzuppato di fango.
La
gente si recava spesso a trovare quel famoso scrittore, rideva e scherzava alle
sue spalle prendendolo spesso in giro.
Alcuni
si fingevano di essere minatori che lavoravano lì, gli impartivano ordini e si
divertivano ad umiliarlo. Vi fu anche una ragazza che ebbe la faccia tosta di
dirgli che si chiamava Lindsay e lui rimase interdetto: era convinto che
Lindsay fosse morta e probabilmente in quell’occasione ebbe un ultimo barlume
di razionalità, scoppiando a piangere forse per la propria sorte. Qualche
giorno più tardi si era già convinto che quella Lindsay che aveva incontrato
fosse una visione, giunta per alleviare le proprie sofferenze.
Sognava,
sognava di essere prigioniero nel nulla, chiuso nella città senza tempo,
circondato dal timore di se stesso e della sua follia.
Passeggiava
tra le piante raccogliendo foglie e freddo; poi giunse la neve e ne fu
immensamente felice. Era arrivato il suo elemento naturale: camminava,
camminava percorrendo infinite volte il tratto tra la capanna e la cava,
lasciando impronte su impronte. La gente si chiedeva come facesse a sopportare
quel clima e continuava a deriderlo finché non cominciò a dimenticarlo. Di lui
non si parlò più, ma il signor Einaudi continuava a vivere la sua vita tra la
miseria più nera, la depravazione e la pazzia.
Aveva
cominciato a denudarsi, a camminare zoppicando, a distruggere ogni cosa che gli
capitava tra le mani. Un giorno venne la polizia a cercarlo per atti osceni e
devastazione di un parco pubblico. In quella occasione avvenne l’irreparabile.
Un
poliziotto tentò di bloccargli il braccio per mettergli le manette, quando il
pazzo cacciò fuori un coltello e lo affondò tutto nel ventre del malcapitato.
Fu rinchiuso in una manicomio criminale, ma non passò molto tempo che riuscì a
fuggire ed a raggiungere di nuovo la sua capanna. Pianse, pianse a lungo,
perché aveva perduto; perché da vincitore era divenuto un vinto, perché non
aveva più la sua libertà.
Quando
la polizia tornò a prenderlo, si gettò nel lago, ma fu ripescato e condotto di
nuovo in manicomio.
(4)
“L’Interruzione”
STOP
– REVIEW
.oimocinam ni ovoun id ottodnoc e otacsepir uf am, ogal len
‘otteg is, obrednerp a ‘onrot aizilop al adnauQ .‘atrebil aus al ‘uip aveva non
‘ehcrep , otniv nu otunevid are eroticniv ad ‘ehcrep ;outdrep aveva ‘ehcrep, ognul
a esnaip, esnaiP .annapac aus al ovoun id eregnuiggar a de erigguf a ‘icsuir
ehc opmet otlom ‘ossap non am, elanimirc oimocinam nu ni osuihcnir uF
.otatipaclam led ertnev len ottut ‘odnoffa ol e olletloc nu irouf ‘oiccaC
STOP
– PLAY
Cacciò
fuori un coltello e lo affondò tutto nel ventre del malcapitato. Fu rinchiuso
in un manicomio criminale, ma
STOP
“Che
ne pensi?”, chiese Igor fermando il registratore.
“E’
fantastico! Come finisce, poi?”
La ragazza
aveva talmente stralunato gli occhi per l’interesse che Igor quasi scoppiò a
ridere.
“Suvvia,
Petra, non fare quella faccia; non riesco a parlare!”, si riprese, “Dunque… il
pazzo verrà poi ucciso da un altro di quei malati di mente, ma il suo libro
avrà ancora più successo di quanto ne avesse già avuto.”
“Interessante!
Sai cos’è che più mi piace?”, e senza aspettare una risposta:
“Il fatto che ognuno dei personaggi crede di
essere reale, mentre in realtà non lo è affatto: sei tu che li hai creati!”
“E’ vero”,
fece Igor, “fino ad un certo punto, però!”
“Cosa vuoi
dire?”
“Che forse
neanche noi siamo reali.”
“Non dire
sciocchezze! Io vivo e sono qui insieme a te.”
“Forse
anche noi siamo stati creati dalla fervida immaginazione di uno scrittore,
oppure non siamo altro che un sogno; e forse da un momento all’altro ci
potrebbe essere qualcuno pronto con un click a fermare il suo registratore
stereo e tornare indietro per ascoltarci di nuovo. Non possiamo mai essere
sicuri se la vita che conduciamo sia la realtà o un lungo sogno.”
“Allora,
fai attenzione a non imitare il signor Einaudi!”, lo riprese Petra.
“Che vuoi
dire?”
“Potresti
finire come lui: innamorato pazzo della sua stessa opera! Ora devo andare,
ciao!”
Petra uscì
dallo studio. Igor rimase in silenzio accanto al suo stereo, poi premette
ancora uno di quei pulsanti e si rimise la cuffia….